Teatro Telaio

Senza Colpa - Storia di un processo

Archiviato il 22 gennaio 2014


Regia Valentina Salerno
Con Gessica Carbone, Anna Scola, Stefano Tamandi
Musiche dal vivo di Davide BonettiDrammaturgia: Valentina Salerno
Scenografia: Francesca Danesi, D. Blu, Davide Bonetti

“Si può essere perseguitati e puniti per una colpa non commessa eppur di questa colpa si può portar vergogna fino alla morte e forse anche oltre.” P. LeviIl

Il termine kafkiano, nato in riferimento allo scrittore Franz Kafka, è ormai un neologismo della lingua italiana che indica una situazione paradossale e in genere angosciante accettata come status quo, verso la quale è impossibile qualunque reazione tanto sul piano pratico che su quello psicologico. Uno degli esempi più paradigmatici di situazione kafkiana è Il Processo, in cui l’impotenza viene messa in relazione alla burocrazia giudiziaria.
A Josef K. un mattino, il giorno del suo trentesimo compleanno, viene comunicato l’arresto. La sua vita, la routine non deve cambiare, nonostante sia in stato di fermo e sotto processo. Josef K. non comprende, non accetta. Di cosa è colpevole? Di una colpa senza nome, senza oggetto.
Josef cerca di rifiutare questa Legge, una Legge scritta che si manifesta come gioco tremendo che una presenza/assenza intrattiene con gli inquisiti, gli eletti. Josef K. pretende mandati d’arresto, atti d’accusa, documenti. Il Processo diventa una discesa agli inferi nel brulichio della vita. Non solo i suoi giudici, irraggiungibili, ma perfino le guardie più ripugnanti, perfino le figure più abbiette, diventano tribunale, occhi che osservano e giudicano. Alla fine del suo percorso, del suo procedere, Josef è riconosciuto colpevole e viene condannato, o forse si lascia condannare, quasi nella convinzione che nessuno è veramente innocente. Si intuisce sopra di lui la commozione di ciò che rimane fino alla fine nascosto, la morte in tutto il suo stupore.

L’attore che interpreta Josef K si muove come intrappolato nella scena angusta, che quasi ne altera la presenza, il movimento, la voce. La messa in scena punta a sperimentare le dinamiche dello spazio e del suono trasformandole in funzione della dimensione psichica o puramente narrativa.
Le maglie del Processo diventano incomprensibili sgambetti, assurdi e irrazionali percorsi obbligati. Altri corpi/personaggi, voci singole di un Unico declinabile, compaiono in una scena semplice ma intricata. Essi alterano a volte impercettibilmente ma irrimediabilmente, le stanze/prigioni di Josef K. Tutto lo spazio scenico, in ogni suo elemento, diviene il tribunale/città kafkiano.
Dalle porte e dalle finestre, dai pertugi, dalle ferite della scenografia, in continua evoluzione e mutamento, fanno capolino i personaggi del tribunale universale che condanna Josef K. (un profilo,un mezzobusto, mani imploranti, una testa di donna che scioglie i capelli), apparendo quindi come parti non ben distinguibili di un potere nascosto che ordisce una trama per incastrarlo. Gli attori proiettano le loro ombre incombenti su queste pareti scrostate, deformati e annullati nella loro dimensione umana; i suoni discordanti che accompagnano l’azione sono veri oggetti sonori, che tessono una trama uditiva nella quale sembra di riconoscere rumori noti e rassicuranti (pentole, vetro, bicchieri), ma che decontestualizzati producono un effetto spiazzante. La musica e i suoni sono parte integrante dello spettacolo, e sono rigorosamente eseguiti dal vivo.
La tensione sonora viene raggiunta con strumenti musicali appositamente progettati e costruiti, a partire da molle, secchi, lampade, bombole del gas, casse di legno; utilizzati accanto a strumenti esistenti ma poco convenzionali quali il waterphone, il carillon a schede, il cajon e la melodica. Non viene utilizzato nessuno strumento elettronico. L’attore allora si moltiplica nelle voci che si sovrappongono alle macchine/strumenti.

“E' il dramma dell'impotenza, della solitudine (quelli che tentano di aiutarlo sono solo corrotti affabulatori) e dell'angoscia surreale: come nei film dell'orrore il male c'è, ma non si vede. (...)La tragica catarsi finale è un epilogo inevitabile, dai risvolti filo-religiosi: attesa e morte, come nella cultura ebraica. Cinque minuti di meritati applausi a scena aperta.” (Elia Zupelli, Bresciaoggi, 4 giugno 2010).

TEATRO SERALE